Possibili sviluppi farmacologici per terapie più semplici e adeguate grazie a un gruppo di molecole che bloccano un enzima e un recettore responsabili del cancro alla mammella. La ricerca, condotta dal Cnr-Iom in collaborazione con l’Istituto nazionale dei tumori di Milano e l’Università di Bologna, è stata sostenuta da Fondazione Airc per la ricerca sul cancro. I risultati sono stati pubblicati sull’European Journal of Medicinal Chemistry

Il tumore al seno è tra i più frequenti nelle donne. Contro questo tumore disponiamo oggi di terapie efficaci che però non sono ancora in grado di risolvere tutti i casi. Oggi per questo tumore è diventato possibile progettare farmaci più selettivi ed efficaci, anche grazie alle simulazioni numeriche. Lo confermano i risultati di una ricerca dell’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche di Trieste (Cnr-Iom), in collaborazione con l’Istituto nazionale dei tumori di Milano e l’Università di Bologna. I dati, pubblicati sull’European Journal of Medicinal Chemistry, sono stati ottenuti anche grazie al sostegno di Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro a un progetto, recentemente concluso, volto a identificare molecole adatte al trattamento di questo tumore. Nella ricerca condotta da Cnr-Iom è stato studiato in particolare il ruolo degli estrogeni.


Un gruppo di ricercatori internazionali, coordinato dal Dipartimento di Scienze cliniche internistiche, anestesiologiche e cardiovascolari della Sapienza, ha dimostrato per la prima volta come la risposta immunitaria peggiori il decorso della malattia nei pazienti affetti da sclerosi multipla. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Cell Death & Disease
La sclerosi multipla (SM) è una malattia autoimmune neurodegenerativa che colpisce circa 2,8 milioni di persone nel mondo, di cui quasi 130.000 solo in Italia. Nella SM alcune cellule del sistema immunitario, i linfociti T, si attivano in maniera anomala e danneggiano, così, i tessuti del sistema nervoso centrale. Questa attivazione avviene perché i linfociti T riconoscono non solo gli antigeni derivati dallo stesso tessuto neuronale ma anche altri antigeni che restano nascosti in condizioni normali, per poi svelarsi in caso di stress tissutale, e che pertanto vengono definiti “criptici”, Questi possono svelarsi, ad esempio, nel corso del processo apoptotico dei linfociti T, cioè quando queste cellule vanno incontro a una morte programmata (apoptosi) al termine delle loro funzioni.

Come dimostrato in uno studio del gruppo di ricerca di Vincenzo Barnaba, del Dipartimento di Scienze cliniche internistiche, anestesiologiche e cardiovascolari della Sapienza, la risposta immune verso gli antigeni criptici derivati dall’apoptosi viene correlata alla severità della malattia. Infatti nei pazienti con sclerosi multipla le cellule T apoptotiche aumentano e, parallelamente, aumentano le cellule T che riconoscono antigeni criptici liberati durante il processo di morte.

Un team di ricercatori internazionali, guidati dall’Università Statale di Milano, rivela nei pazienti affetti da una rara sindrome caratterizzata da atassia combinata a ipogonadismo, il ruolo di un fattore di trascrizione nel neurosviluppo del cervelletto e dell’ipotalamo. Lo studio, realizzato tramite la ricerca di mutazioni nei pazienti e con l’utilizzo di modelli transgenici murini, pubblicato sul Journal of Clinical Investigation.


L'ipogonadismo ipogonadotropo congenito è una rara malattia genetica causata dal mancato sviluppo o funzionamento dei neuroni ipotalamici che secernono l'ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH), l'ormone chiave nel controllo dell’avvio della pubertà. I neuroni GnRH-secernenti rappresentano una piccolissima popolazione neuronale che riceve input eccitatori e inibitori da altri neuroni ipotalamici, quali i neuroni secernenti Kisspeptina, un ormone in grado di stimolare la produzione di GnRH.


Uno studio clinico durato cinque anni dimostra che contrasta i disturbi comportamentali e supporta il funzionamento cognitivo ed emotivo anche a lungo termine.
Pubblicato sulla rivista «The Journals of Gerontology- Psychological Sciences» con il titolo “Cognitive Stimulation Therapy for Older Adults With Mild-to-Moderate Dementia in Italy: Effects on Cognitive Functioning, and on Emotional and Neuropsychiatric Symptoms” il lavoro di ricerca coordinato dalla Professoressa Erika Borella del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova in cui si dimostra l’efficacia dell’adattamento italiano del protocollo di Terapia di Stimolazione Cognitiva per persone con demenza lieve-moderata.


Con l’obiettivo di verificare l’efficacia dell’adattamento italiano del protocollo di Terapia di Stimolazione Cognitiva sul funzionamento cognitivo ed emotivo e sulla qualità di vita delle persone con demenza, Erika Borella, con Elena Carbone e Margherita Vincenzi del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università degli Studi di Padova, ha coordinato uno studio multicentrico nazionale che è durato più di 5 anni e che ha visto coinvolte 225 persone con demenza lieve-moderata afferenti a 16 tra Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) e Centri Servizi del nord e centro-sud Italia. Più di cinque milioni di persone nel mondo sono oggi affette da demenza, un disturbo neurocognitivo caratterizzato da un progressivo declino cognitivo, disturbi dell’umore, del comportamento e della personalità che compromettono la funzionalità quotidiana della persona. Non solo, la demenza comporta elevati costi socio-assistenziali, così come gravosi carichi fisici e psicologici sia per la rete di supporto informale (famiglia) che per diverse figure professionali, se la persona è istituzionalizzata.


La Terapia di Stimolazione Cognitiva

Oltre le cure farmacologiche, sono stati sviluppati interventi psicosociali (non farmacologici) che sembrano essere molto promettenti nel rallentare il decorso del disturbo, o quantomeno nel non favorirne la progressione. La Terapia di Stimolazione Cognitiva, sviluppata da ricercatori inglesi e il cui protocollo è stato adattato in più di 29 Paesi al mondo tra cui l’Italia, è a oggi tra gli interventi di stimolazione cognitiva più efficaci per persone con demenza lieve-moderata. Questo programma seleziona e combina gli elementi di maggior efficacia di altri interventi psicosociali basati sulla stimolazione cognitiva e sensoriale - come la Reality Orientation Therapy, la terapia della reminiscenza, principi dell’apprendimento implicito, approcci di stimolazione multisensoriale - con un approccio “centrato sulla
persona”, che permette di riconoscere il valore e le risorse dell’individuo, al di là dei sintomi con cui il suo disturbo si manifesta. Le attività proposte hanno anche l’obiettivo di valorizzare le risorse cognitive
residue della persona, così come le sue competenze emotive, sociali e relazionali. Durante le quattordici sessioni di gruppo che compongono l’intervento vengono proposte diverse attività pratiche, coinvolgenti e piacevoli per stimolare le abilità cognitive (memoria, funzioni esecutive, orientamento spaziotemporale, linguaggio e competenze verbali), in un contesto (il gruppo) che promuove anche la socializzazione. In questo modo, non solo è possibile stimolare il funzionamento cognitivo, ma si può agire anche su altri sintomi che caratterizzano la demenza, come i disturbi d’umore (depressione) e comportamentali (ed esempio deliri e allucinazioni, aggressività, apatia, etc.), promuovendo, più in generale, un maggior benessere e una miglior qualità di vita.


La ricerca

Lo studio multicentrico è durato più di 5 anni, ha coinvolto 225 persone con demenza lievemoderata afferenti a 16 tra Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) e Centri Servizi del nord e centro-sud
Italia. Tutti i partecipanti hanno preso parte ad un totale di 20 incontri nell’arco di 23 settimane. Sono stati presentati test cognitivi (relativi al funzionamento cognitivo generale, linguaggio e competenze verbali) e questionari (tono dell’umore, frequenza e gravità dei disturbi comportamentali e psicologici, qualità di vita, funzionalità quotidiana) per la valutazione dell’efficacia dell’intervento, non solo a breve termine (post-test dopo 9 settimane) ma anche a lungo termine (a 3 mesi dalla conclusione dell’intervento, quindi a 23 settimane dall’inizio delle sessioni). Durante 14 sessioni, che si svolgevano in gruppo e a cadenza bisettimanale, i partecipanti assegnati al gruppo sperimentale (123) hanno preso parte alla Terapia di Stimolazione Cognitiva, mentre i partecipanti assegnati al gruppo di controllo (102) hanno continuato a svolgere usuali attività proposte dal proprio centro di afferenza.


I risultati

I risultati hanno confermato l’efficacia del protocollo di Terapia di Stimolazione Cognitiva nel supportare il funzionamento cognitivo generale, oltre che, più nello specifico, le competenze verbali e comunicative. «Il gruppo sperimentale coinvolto nelle sessioni di terapia di stimolazione cognitiva - dice Erika Borella del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova - non ha mostrato un peggioramento a livello del funzionamento cognitivo (ad esempio memoria, orientamento spazio-temporale), come ci si aspetterebbe da questo disturbo, bensì un mantenimento grazie
alle attività di stimolazione proposte con questo protocollo. Questi benefici non sono emersi invece per il gruppo di controllo che è peggiorato a livello del funzionamento cognitivo nel tempo. I partecipanti del gruppo sperimentale, a differenza del gruppo di controllo, hanno anche ottenuto migliori prestazioni in una prova che valuta le competenze linguistiche e comunicative ed in particolare la capacità di organizzare i contenuti di un discorso in modo efficace e informativo.

Questi risultati - continua Borella - sono molto importanti e suggeriscono come questa Terapia di Stimolazione Cognitiva sostenga non solo il funzionamento cognitivo, contrastandone il declino, ma stimoli tra l’altro un’abilità, il linguaggio, che favorisce le interazioni con l’ambiente, un ambiente che diventa quindi sempre più “arricchito” di stimoli e stimolazioni a cui la persona con demenza re-agisce. Non solo, questo intervento è risultato efficace anche nel supportare il tono dell’umore e contenere i disturbi comportamentali. I partecipanti del gruppo sperimentale, nelle 23 settimane, non hanno mostrato peggioramenti nella sintomatologia depressiva, così come nella frequenza e gravità dei disturbi comportamentali che caratterizzano il disturbo neurodegenerativo, come ad esempio la presenza di deliri e allucinazioni, l’apatia, l’aggressività, cosa che invece è avvenuta per i partecipanti del gruppo di controllo. La terapia, anche grazie all’approccio di valorizzazione della persona e il contesto di gruppo che stimola tra l’altro la socializzazione, - sottolinea Erika Borella - sembra quindi efficace anche nel sostenerne il tono dell’umore e contenere o contrastare l’aggravarsi dei disturbi comportamentali molto frequenti in questo disturbo».


I benefici, per il gruppo che ha preso parte al protocollo di stimolazione cognitiva, sono emersi a breve termine, ovvero non appena si è concluso l’intervento (dopo 9 settimane). «Non solo, per il gruppo sperimentale i benefici della terapia nel funzionamento cognitivo e per le abilità comunicative, nel tono dell’umore e per i disturbi comportamentali si sono mantenuti - spiega Elena Carbone - anche a lungo termine (3 mesi dopo la conclusione dell’intervento, più di 5 mesi dall’inizio della terapia). Questo è il primo studio che ha valutato a lungo termine l’efficacia di questo intervento, riscontrandone, l’efficacia».

La Terapia di Stimolazione Cognitiva rappresenta quindi, ad oggi anche nel contesto italiano, uno dei più efficaci programmi per contrastare e rallentare, sia a livello del funzionamento cognitivo che emotivo e dei disturbi comportamentali, la progressione di questo disturbo neurocognitivo in persone con demenza lieve-moderata, garantendo loro una migliore qualità di vita. «Viste le implicazioni che questo protocollo di stimolazione cognitiva ha per la pratica clinica come Servizio di  Psicologia dell’Invecchiamento del Centro di Ateneo dei Servizi
Clinici Psicologici Universitari (SCUP) proponiamo questo tipo di percorso alle persone con demenza e formiamo non solo professionisti perché utilizzino questo protocollo, ma anche familiari, affinché possano stimolare a domicilio i loro cari. Inoltre per assicurare cura e assistenza a persone con demenza che vivono a domicilio, è in corso un ulteriore adattamento di questo protocollo per poterlo erogare a distanza attraverso piattaforme di videoconferenza. La necessità di adattare il protocollo - conclude Erika Borella - ad una modalità di erogazione “virtuale” è nata in risposta alla pandemia da COVID-19, tuttavia, poter proporre percorsi di stimolazione sfruttando le nuove tecnologie permetterebbe di assicurare assistenza non solo in situazioni straordinarie che impongono distanziamento fisico, ma anche per Elena Carbone tutte quelle persone che, a causa di vari impedimenti (ridotta mobilità, mancanza di trasporti), non possono beneficiare di servizi e attività, tra cui gli incontri di stimolazione cognitiva, svolti in presenza presso Centri Diurni o Centri Servizi».


Link alla ricerca: https://academic.oup.com/psychsocgerontology/article/76/9/1700/6092427?login=true

 


Uno studio in collaborazione con il Policlinico Umberto I ha esaminato neonati di mamme positive al SARS-CoV-2 al momento del parto. I risultati pubblicati su JAMA Network Open.
La possibilità che una mamma positiva al SARS-CoV-2 al momento del parto trasferisca l’infezione al neonato è molto rara: lo ha dimostrato l’esperienza clinica di questi due anni di pandemia. Ma quali sono i meccanismi che difendono il neonato? È la domanda da cui sono partiti i ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Gesù, che hanno promosso uno studio in collaborazione con il Policlinico Umberto I di Roma. Lo studio, pubblicato su JAMA Network Open, dimostra che grazie al latte delle madri, contagiate dal virus, questi neonati sono grado di sviluppare proprie difese immunitarie contro il Covid-19.


LA RICERCA
La ricerca appena pubblicata è stata promossa dall’Unità di ricerca Diagnostica Immunologica dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, nell’ambito della Medicina Multimodale di Laboratorio e dall’Unità Operativa Complessa di Neonatologia, Patologia e Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Umberto I. Lo studio ha riguardato 28 donne - e i loro neonati – che hanno partorito al Policlinico Umberto I nel periodo compreso tra novembre 2020 e maggio 2021. Tutte le donne sono risultate positive SARS-CoV-2 al momento del parto in seguito al tampone effettuato per l’ingresso in ospedale, anche se molte di loro erano asintomatiche. Nessuna delle donne all’epoca era stata vaccinata contro il Covid-19. I ricercatori si sono posti l’obiettivo di accertare se e come questa condizione della madre al momento del parto influenzasse l’immunità del neonato.

 

Un’équipe di ricercatori dell’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica e dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche ha descritto il ruolo chiave del recettore CXCR2 in un gruppo di pazienti affetti da Sclerosi laterale amiotrofica di tipo sporadico. I risultati sono stati pubblicati su Neurobiology of Disease

 

La Sla è una malattia del sistema nervoso caratterizzata dalla progressiva neuro-degenerazione delle cellule motoneuronali, per la quale non sono ancora state identificate cure mediche efficaci. A partire da una serie di investigazioni precedenti basate su indagini genomiche ad ampio spettro, un team di ricercatori dell’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica (Irib) e dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare (Ibbc) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) ha rivelato la deregolazione del recettore CXCR2 nei neuroni corticali di un sottogruppo di pazienti affetti da Sla sporadica.

 

Un gruppo di ricerca del Cnr-Igm di Pavia, in collaborazione con l’Università di Siena e con centri di ricerca internazionali, ha recentemente scoperto un nuovo evento molecolare coinvolto nello sviluppo dei tumori cutanei e identificato alterazioni associate alla fotosensibilità. I risultati dello studio sostenuto da Fondazione AIRC sono stati pubblicati rispettivamente sulle riviste PNAS e Nucleic Acids Research.

I raggi UV, ovvero la componente ultravioletta della luce solare, colpiscono le cellule della pelle causando modifiche nella struttura del DNA che, se non riparate, incrementano l’insorgenza di mutazioni genetiche. Poiché l’accumulo di mutazioni contribuisce allo sviluppo di tumori, proteggersi dalla luce UV è fondamentale per prevenire i tumori cutanei. Nelle cellule umane, il NER (dall’inglese, nucleotide  excision repair) è l’unico meccanismo molecolare noto in grado di riparare le lesioni al DNA causate dalla luce UV.

 

Sviluppato un gel ad elevato contenuto di acqua, in grado di supportare la crescita a lungo termine di microtessuti del tumore colon-rettale. Lo studio, condotto dall’Istituto di nanotecnologia del Consiglio nazionale delle ricerche di Lecce in collaborazione con l’Università di Maastricht, ha portato alla realizzazione di un modello tumorale in vitro che consentirà di muovere passi significativi verso la comprensione della complessità del tumore e lo sviluppo di trattamenti specifici per il paziente. La ricerca è stata pubblicata su Carbohydrate Polymers.

Un team di ricercatori dell’Istituto di nanotecnologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Nanotec) di Lecce, in collaborazione con i colleghi dell’Università di Maastricht, ha condotto una ricerca che ha portato allo sviluppo di un gel ad elevato contenuto di acqua, quindi altamente biomimetico, in grado di cambiare il suo stato fisico grazie all’aumento della temperatura dell’ambiente in cui si trova e che consente di studiare la crescita e lo sviluppo di tessuti tumorali in vitro con possibili applicazioni nel campo della sperimentazione dei farmaci e della medicina personalizzata.


In particolare, i ricercatori hanno dimostrato come ottenere, attraverso la combinazione di due polimeri di origine naturale: il chitosano (proveniente dall’esoscheletro del gambero) e la pectina (un componente della mela), un gel che si presenta in forma di soluzione a temperatura ambiente e che passa allo stato di gel aumentando con l’aumentare della temperatura al valore fisiologico di 37 gradi. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Carbohydrate Polymers del gruppo Elsevier.


Uno studio dell’Università di Pisa, in collaborazione con Università di Padova e EPFL (Svizzera), riscrive una delle leggi fondamentali della biologia, la legge di Kleiber.

Uno studio pubblicato di recente sulla rivista PNAS consente un avanzamento deciso negli studi sul metabolismo degli esseri viventi, con ricadute importantissime in campi che vanno dalla medicina personalizzata fino alla gestione delle risorse di un dato ambiente per il sostegno alimentare dei suoi abitanti, un tema che da anni sta occupando istituzioni nazionali e internazionali per l’obiettivo “fame zero” dell’Agenda 2030.

Il team di ricerca della professoressa Arti Ahluwalia, docente di bioingegneria al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e direttrice del Centro di Ricerca “E. Piaggio” dell’Ateneo pisano, in collaborazione con i colleghi dell’Università di Padova e di EPFL (la Scuola politecnica federale di Losanna), ha dimostrato che la legge di Kleiber, una delle leggi fondamentali più note delle biologia, non è assoluta, ma varia a seconda di come è composta la popolazione di individui che prendiamo in considerazione.

Lo studio dei ricercatori dell’Ateneo e dell’IIT di Rovereto su Nature Communications

Lo spettro autistico è caratterizzato da una forte eterogeneità, con sintomi e disfunzioni a livello neurologico di diversa gravità e impatto. Ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) e dell’Università di Pisa, hanno individuato una forma di autismo causata da una specifica alterazione neuronale: la presenza di un eccessivo numero di sinapsi nella corteccia cerebrale. La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature Communications, potrà guidare lo sviluppo di futuri trattamenti farmacologici mirati a ripristinare queste alterazioni.

Il gruppo di ricerca vede coinvolti Alessandro Gozzi, Coordinatore del Centro di Neuroscienze e Sistemi Cognitivi (CNCS) di IIT a Rovereto, Michael Lombardo, ricercatore senior di IIT, e il Prof. Massimo Pasqualetti dell’Università di Pisa. Gozzi e Lombardo conducono le proprie ricerche sul cervello anche grazie a finanziamenti da parte dell’European Research Council (ERC). Nello specifico i ricercatori hanno individuato una disfunzione che riguarda i neuroni di un’area cerebrale deputata alla comunicazione, i quali presentano un eccessivo numero di sinapsi, ovvero quelle microscopiche protuberanze che servono per inviare e ricevere segnali tra neuroni.

 

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